Disturbi Specifici di Apprendimento (DSA) e storia di vita del bambino

Un recente studio pubblicato sulla rivista “Psicologia Clinica dello Sviluppo” condotto da un gruppo di clinici che da anni si occupano della valutazione e del trattamento di bambini con disturbo specifico di apprendimento (DSA) ha cercato di rispondere ai seguenti quesiti:

1. Quali sono le esperienze di vita dei bambini che alla scuola primaria svilupperanno un DSA?

2. Il bambino ha manifestato un qualche disagio in età prescolare?

3. Quanto lo stile educativo-genitoriale influenza l’apprendimento?

Partendo da questi interrogativi, i ricercatori hanno focalizzato l’attenzione sullo sviluppo delle competenze esperienziali (“life skills”) e sugli stili educativi ad esse correlate. L’ipotesi di partenza è che queste due aree siano implicate nella crescita emotiva, cognitiva e sociale del bambino e che, fin dalla più tenera età, costituiscano la base per la successiva competenza scolastica.

Con il termine “life skills” s’intendono tutte quelle abilità sociali e relazionali che è necessario apprendere per affrontare in modo efficace le esigenze della vita quotidiana, rapportandosi con fiducia a se stessi, agli altri e alla comunità. L’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) ne identifica dieci e le raggruppa in tre aree:

– Emotiva: consapevolezza di sè, gestione delle emozioni, gestione dello stress;

– Cognitiva: risolvere i problemi, prendere decisioni, senso critico, creatività;

– Sociale: empatia, comunicazione efficace, relazioni efficaci.

Lo sviluppo delle life skills inizia dalla nascita e prosegue per l’intero ciclo di vita. Tali competenze vengono promosse in età precolare soprattutto attraverso uno stile educativo stimolante e ricco di esperienze condivise.

La prevenzione dell’insuccesso scolastico, quindi, può essere affrontata già in età prescolare aiutando i genitori a proporre ai bambini esperienze quotidiane che li rendono capaci di trasformare le conoscenze in reali competenze (sapere cosa fare e come farlo).

I risultati di questa ricerca dimostrano come si faccia esperienza e si cresca dal primo giorno di vita ed il ruolo del genitore inizia da subito, non solo come accudimento, ma anche come “educatore” inteso come “ti insegno a …”; “ti aiuto a capire”, “ti leggo/interpreto il mondo”, “ti stimolo a…”. L’adulto deve “esser-ci” con il propio bambino nella quotidianità condivisa, secondo le tappe di sviluppo del proprio figlio

Un dato interessante riportato in questa ricerca riguarda il raggiungimento tardivo di alcune tappe evolutive nella maggior parte dei bambini del campione di riferimento a cui è stato diagnosticato un DSA in età scolare: passeggino e biberon usati anche quando il loro impiego è ormai immotivato; bambini vestiti e lavati dai genitori fino a tarda età; ritardo di due o più anni nell’imparare ad allacciare le scarpe, ecc., oppure ancora la ridotta richiesta di prendersi cura dei propri oggetti (es. giochi), riponendoli a posto, dopo l’uso. L’adulto, infatti, dovrebbe insegnare al bambino, fin dalla più tenera età, che ogni azione prevede una fase di preparazione, uno svolgimento e una fase di conclusione. 

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I ricercatori concludono che, fermo restando l’origine neurobiologica dei DSA, possiamo provare a chiederci che ruolo possono avere le esperienze di vita a cui i bambini sono stati esposti in età prescolare nel manifestarsi del disturbo e nelle eventuali comorbilità. Alla luce dei dati riportati, è possibile pensare che sia riduttivo talvolta utilizzare la categoria diagnostica per il DSA, in termini di “specificità”, come se venisse posto il focus sull’apprendimento, quando non è però l’unica peculiarità di quel soggetto. La diagnosi nosografica-descrittiva, rischia di fare coincidere l’individuo con la sintomatologia, perdendo di vista la sua unicità e le sue specifiche modalità di funzionamento personale, fondamentali per dare un senso alla sua esperienza; il rischio è quello di “etichettare” un bambino, che da quel momento “si leggerà” e “verrà letto” dagli adulti, alla luce della categoria diagnostica. Per aiutare l’individuo occorre però comprenderlo, partendo sia dalla sua storia di vita che dal contesto educativo di appartenenza, per giungere ad una diagnosi esplicativa, che ci aiuti ad identificare il trattamento più indicato, sulla base dei suoi reali bisogni. 

 

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