Una storia di amore e di tenebra
“… Le due stanze, il cucinino, il bagno e soprattutto il corridoio erano bui. I libri riempivano tutta casa nostra: mio padre era in grado di leggere sedici o diciassette lingue e di parlarne undici (tutte con accento russo). Mia madre aveva dimestichezza con quattro o cinque, e ne leggeva sei, otto. Fra loro, conversavano in russo e in polacco, quando non volevano farsi capire da me (capitava quasi sempre…). Se il senso culturale li spingeva a leggere per lo più in tedesco e in inglese, certamente era l’yiddish ad abitare i loro sogni, la notte. Quanto a me, insegnarono solo e soltanto l’ebraico: forse per paura che la padronanza di tante lingue esponesse anche me alle seduzioni della letale Europa.…Mia madre, che aveva studiato all’università di Praga e terminato il corso a Gerusalemme, dava lezioni private a chi preparava l’esame di storia e anche di letteratura. Mio padre aveva una laurea in letteratura, presa all’Università di Vilna, e un’altra ottenuta qui al Monte Scopus, ma non aveva alcuna probabilità di ottenere una cattedra all’università ebraica, a quell’epoca, giacché a Gerusalemme il numero di ricercatori con dottorato era assai maggiore di quello degli studenti, nella disciplina in questione… Aveva dunque, chissà come, racimolato un posto da bibliotecario presso la Biblioteca nazionale sul Monte Scopus…
Quand’ero piccolo da grande volevo diventare un libro. Non uno scrittore, un libro: perché le persone le si può uccidere come le formiche. Anche uno scrittore non è difficile ucciderlo. Mentre un libro, quand’anche lo si distrugga con metodo, è probabile che un esemplare comunque si salvi e preservi la sua vita di scaffale, una vita eterna, muta, su un ripiano dimenticato in qualche sperduta biblioteca a Reykjavik, Valladolid, Vancouver.
Se capitò due o tre volte che non ci fosse abbastanza denaro per comprare il necessario per il Sabato, mamma guardò papà e papà capì che era arrivato il momento di scegliere la vittima sacrificale. Subito dopo, andava all’armadio dei libri: era un uomo di principi, e sapeva che il pane veniva prima dei libri e che il bene del bambino veniva prima di tutto. Rammento la sua schiena curva mentre passava dalla porta con tre o quattro amati tomi sotto il braccio, diretto con il cuore infranto al negozio del signor Meyer a vendere qualche prezioso volume, come fosse stato un taglio della sua carne. Così doveva essere sembrato anche nostro padre Abramo quando quella mattina presto lasciò la tenda con il figlio Isacco sulle spalle, diretto al Monte Moria.
Capivo il suo dolore: papà aveva un rapporto carnale con i libri. Amava toccarli, frugarli, accarezzarli, annusarli. Era infoiato per i libri, incapace di trattenersi, allungava subito le mani, fossero anche stati libri altrui. In effetti, i libri di allora erano molto più sexy di quelli di adesso: c’era di che annusare, accarezzare, tastare. C’erano libri con le scritte dorate sulla copertina che ancora profumavano, un po’ ruvide al tatto, così che dalle mani passava tutto un brivido sulla pelle, come quando si tocca qualcosa di intimo e inaccessibile, qualcosa che un po’ freme e trema, sotto le tue dita. C’erano poi i libri con la copertina di cartone rivestita di stoffa, appiccicata con una colla dall’odore incredibilmente sensuale. Ogni libro aveva il suo odore segreto ed eccitante. A volte la copertina di stoffa si staccava un poco dal cartone, si scompigliava come una gonna sfacciata, e che fatica non gettare l’occhio verso l’interstizio buio fra corpo e tessuto, non attingervi sentori da vertigine.
Il più delle volte papà tornava dopo un’ora o due, senza libri, ma con dei sacchetti di carta marroni contenenti pane, uova, formaggio e a volte anche una scatoletta di carne. Capitò anche, però, che papà tornasse dal sacrificio felice come una Pasqua, con un sorriso stampato in faccia, senza gli amati libri ma anche senza spesa: i primi li aveva sì venduti, solo che lì per lì ne aveva comprati degli altri, perché sul posto aveva scoperto dei tesori così inattesi, di quelli che ti capita di scoprire una volta sola nella vita, e non aveva resistito. Mia madre lo perdonava, e anch’io, perché per quel che mi riguardava non m’interessava mangiare altro che le pannocchie e il gelato. Detestavo le frittate e la carne in scatola. E a dire la verità a volte invidiavo un poco quei bambini affamati in India, che nessuno mai costringeva a finire quel che c’era nel piatto….”
Tratto da “Una storia d’amore e di tenebra” di Amos Oz, tradotto per Feltrinelli dall’ebraico da Elena Lowenthal, Feltrinelli Editore 2003
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